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Storie di familiari: Marco e Renato tra differenze e affinità

2024-10-02 16:10

Famiglie in rete

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Storie di familiari: Marco e Renato tra differenze e affinità

Renato e Marco condivideranno con noi i loro vissuti e le loro personali strategie per affrontare la complessità della malattia mentale nei propri cari.

Il confronto tra vissuti personali è spesso uno degli strumenti più efficaci per comprendere la complessità delle sfide legate alla salute mentale, sia dal punto di vista degli utenti che dei familiari.

Nel campo della salute mentale, ogni esperienza è unica, eppure vi sono temi e difficoltà comuni che attraversano il vissuto di molte persone. In questo contesto, "Famiglie in rete" rappresenta un prezioso contenitore di idee, testimonianze e scambi, riunendo numerose associazioni che, come la nostra – Associazione Italiana Disturbo Bipolare (AIBP) – si impegnano quotidianamente a fare la differenza. Il nostro obiettivo è duplice: supportare non solo gli utenti, ma anche i loro familiari, che spesso affrontano percorsi di sostegno e comprensione altrettanto complessi.

La condivisione delle esperienze personali offre un'opportunità unica: permette ai familiari e agli utenti di sentirsi meno soli nel loro percorso, trovando conforto nella scoperta di vissuti simili, ma anche spunti per riflessioni critiche che possono tradursi in azioni concrete.

L'incontro tra esperienze, infatti, non si limita a fornire supporto emotivo, ma può essere il catalizzatore per un cambiamento reale nelle dinamiche familiari e nella gestione delle cure e dell’approccio ai servizi.

Di recente, abbiamo avuto l’opportunità di osservare uno scambio di idee particolarmente interessante all’interno della rete tra due membri molto attivi: Marco Faita e Renato Ventura. Entrambi familiari di persone affette da malattia mentale, Marco e Renato hanno vissuti e approcci differenti riguardo la gestione della malattia e la visione dei servizi psichiatrici.

Questo scambio di idee si è rivelato straordinariamente stimolante, non solo per il contenuto delle loro riflessioni, ma anche per il modo in cui le loro prospettive si sono intrecciate. Sebbene su alcuni punti le loro opinioni possano divergere in realtà’ non sono mai rigidamente contrapposte. Al contrario, il loro confronto è stato caratterizzato da una riflessione aperta e dinamica, capace di arricchire il dibattito e di offrire nuove chiavi di lettura.

È proprio per il valore di questo scambio che abbiamo deciso di invitarli a condividere le loro storie e riflessioni durante uno dei seminari che organizziamo periodicamente all’interno della nostra piattaforma. Crediamo infatti che la loro testimonianza possa rappresentare un'importante occasione di crescita per tutti i partecipanti, offrendo non solo spunti per approfondire le diverse tematiche legate alla malattia mentale, ma anche suggerimenti utili per affrontare il percorso terapeutico e la gestione quotidiana dei propri cari.

In un campo complesso come quello della salute mentale, l’ascolto delle esperienze altrui può diventare uno strumento fondamentale per costruire una rete di supporto più solida e, soprattutto, più consapevole.

 

Per prenotarsi accedere al sito www.AIBP.it nella sezione seminari. 

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RENATO:

Sono padre adottivo di due figli: di 50 anni il maschio e 51 anni la femmina.  A mia figlia Cinzia fu diagnosticato un disturbo borderline di personalità e, in seguito, anche un disturbo bipolare. È ipovedente. In età post-adolescenziale ha avuto un lungo (circa un anno) ricovero presso la Clinica Psichiatrica. Successivamente è stata ospite, per molti anni, di numerose comunità terapeutiche. Da qualche anno vive nella propria casa assistita da personale di assistenza e di supporto. Per lei ho combattuto una lunga battaglia con i servizi psichiatrici che avevano deciso, contro il mio parere e per tutelarsi dal rischio di suicidio di mia figlia, di mantenerla a vita presso le comunità terapeutiche. A causa di una conflittualità familiare con mia figlia ho accettato che venisse nominato un ADS (amministratore di sostegno).  Anche i rapporti con l’ADS non sono stati facili con ricorso ripetuto al giudice tutelare per risolvere i contrasti sorti circa le migliori soluzioni per Cinzia.

Mio figlio Cosimo ha presentato, specie in passato, gravi anomalie comportamentali anche con rilevanza penale, uso di sostanze e grave instabilità lavorativa e nelle relazioni affettive. Non ha mai avuto contatti con i servizi psichiatrici anche se verosimilmente anche per lui si potrebbe porre una diagnosi di un disturbo di personalità (antisociale? paranoide?).

In realtà, per quello che è un mio personale convincimento, ambedue hanno molto sofferto per la loro vicenda adottiva che ha comportato una disarmonia evolutiva e distorsioni nella costruzione della loro personalità. È anche verosimile che, in una sorta di circolo vizioso, la nostra difficoltà di gestire i loro bisogni affettivi ed educativi (io lo definisco un “buco nero” affettivo dovuto a una carenza di cure primarie tale da configurare la sindrome dell’ospitalissimo di Spitzer) i loro problemi siano stati amplificati. La forzata necessità di ricorrere ai servizi psichiatrici ha comportato per Cinzia un percorso psichiatrico che ha avuto gravissime conseguenze nella sua evoluzione psicologica: lunghissime istituzionalizzazioni presso comunità terapeutiche con regressione psicologica e, a causa di un uso sconsiderato ed eccessivo di psicofarmaci, gravissimi danni alla sua salute fisica per gli effetti collaterali degli stessi: obesità, sindrome metabolica, diabete, ipotiroidismo…

 

 

La mia formazione professionale (psichiatra e psicoanalista oltre che, per una ventina di anni, neurologo ospedaliero), mi ha indotto, non senza una lunga riflessione, sulla base della mia esperienza di familiare, a aderire alle associazioni di famigliari, prima Aiutiamoli e successivamente la Tartavela, di cui sono diventato, da qualche anno presidente.

A parte un problema di pudore circa l'opportunità di rendere pubblica la mia vicenda mi ha, per lungo tempo, preoccupato la mia veste ibrida di familiare e di professionista della salute mentale. Infatti, fatico a riconoscermi a tutto tondo in una delle due condizioni di familiare o professionista.

Di fatto è prevalsa la necessità di poter condividere con altre persone che hanno lo stesso problema (essere familiare di persone affette da disturbo mentale), le difficoltà legate a tale condizione e la problematicità rappresentata dal dovere interloquire con i servizi psichiatrici.

In breve, ora le mie considerazioni riguardo a tali difficoltà e che hanno ispirato il mio contributo in seno alle associazioni di familiari:

1)          La mia formazione di base è, fondamentalmente, medico\biologica. Nel corso degli anni, grazie anche a un lungo training presso la Società Italiana di Psicoanalisi (SIP) di cui sono stato membro associato per molti anni, e la pratica di psicoanalista, sono arrivato a ritenere assai carente la formazione dei colleghi psichiatri che lavorano nei servizi e, in generale, tutto quanto concerne l'attuale organizzazione dei servizi di salute mentale.  Tali servizi sono infatti, almeno per quello che è a mia conoscenza e in Lombardia, centrati su un approccio quasi esclusivamente medico\biologico con utilizzo quasi esclusivo della terapia farmacologica.

A parole e nei documenti è espressamente indicato che i servizi dovrebbero integrare competenze, oltre che medico\psichiatriche anche psicosociali. CPS in Lombardia è l’acronimo di centro psicosociale e nonostante in ogni occasione venga sottolineata la necessità di una integrazione psicosociale, anche recentemente ribadita anche dall’ONU che parla nei suoi documenti di approccio al disturbo mentale con modello bio-psico-sociale, nella realtà tale modello è largamente ignorato e, seppure le figure professionali dello psichiatra, dello psicologo, dell’assistente sociale, oltre a quelle dell’infermiere psichiatrico, e dei tecnici della riabilitazione psichiatrica e dell’educatore, siano previsti nell’équipe, nella realtà dei fatti tale integrazione è largamente inapplicata e domina la figura dello psichiatra che tende a medicalizzare i problemi di salute mentale mentre gli interventi degli altri operatori (quando presenti e disponibili) sono parcellizzati e non realmente integrati.

2)          Da queste contraddizioni e difficoltà nasce il mio interesse a una “decostruzione” dell’attuale sistema dei servizi psichiatrici con valorizzazione di saperi e pratiche alternative a quella oggi prevalente medico\biologica e che si rifanno alla vasta area delle psicoterapie (individuali e di vario orientamento, di gruppo, familiari) e alle pratiche che si riferiscono alla psicologia di comunità.

Tali pratiche non sono ovviamente alternative alle abituali pratiche psichiatriche, fondamentalmente basate sulla prescrizione di psicofarmaci ma, a mio parere, dovrebbero essere prevalenti e al centro nella gestione del disturbo mentale in quanto centrate sulla persona e sulle sue difficoltà relazionali, affettive, lavorative, abitative... L’approccio psichiatrico e farmacologico dovrebbe essere residuale.

Considerare il disturbo mentale come malattia significa “psichiatrizzare” anche situazioni che possono giovarsi di un approccio non di tipo sanitario e farmacologico con tutti i limiti che tale approccio ha mostrato di avere e tutte le complicazioni che comporta.

3)          Il problema di una possibile modifica ed evoluzione dell’assistenza psichiatrica non può che passare dalla formazione delle figure professionali che si occupano di salute mentale, dal modello organizzativo e dalle politiche che si occupano di sanità. Credo che si dovrebbe pensare a strutture di tipo universitario che siano autonome e differenziate da quelle tradizionali che si occupano di scienze mediche e biologiche e che abbiano un profilo antropologico ampio nel quale fare convergere e integrare scienze del comportamento sociologiche, psicologiche, biologiche, filosofiche…Dovrebbero formarsi dipartimenti di scienze antropologiche e di salute mentale che non facciano capo alla Facoltà di Medicina.

Quanto al modello dei servizi bisognerebbe eliminare i CSM (stigmatizzanti e poco attrattivi oltre che di funzionamento costoso e poco produttivo) e inserire la salute mentale all’interno delle costituende Case della Comunità ove è prevista una forte integrazione psicologica e socioassistenziale. Infine, dovrebbe essere dato spazio preminente all’approccio psicologico al disturbo mentale.

4)          Ancora più a monte, ovviamente, quella che deve cambiare è la cultura dominante che informa i modelli sociali attualmente centrati sul successo, l’abilismo, la preponderanza dei diritti individuali rispetto alla valorizzazione della integrazione sociale e della “diversità”. Ma qui sono i “media” e il contributo delle associazioni a stimolare le opportune riflessioni.

5)          La deistituzionalizzazione è l’altro ambito di intervento per ridurre gradualmente l’attuale organizzazione che presiede al ricovero prolungato di persone con disturbo mentale in comunità c.d. terapeutiche (qualcuno parla di “mini manicomi”) che in realtà hanno dimostrato di essere “anti terapeutiche” in quanto cronicizzanti e disabilitanti, con alti costi di gestione e riproducenti il modello dell’istituzione totale (Goffman) che è quello dei manicomi, dei lager, delle carceri, ecc. nei quale il soggetto perde la soggettività. Nel disturbo mentale tale perdita, associata alla tendenza regressiva indotta dal vivere in tali strutture, è connaturata ai disturbi più gravi e viene indotta e amplificata in tali contesti di vita.

Esistono modelli alternativi, meno costosi e più emancipativi, che possono sostituire le tradizionali comunità psichiatriche: housing sociale, microcomunità, residenzialità leggera…

Ho esperienza personale della fondazione di una tale struttura (Scacco Matto Milano) di cui sono stato socio fondatore e vicepresidente. Tale realtà, che si ispira ad analoghi modelli anglosassoni, si propone di fornire un ambiente di incontro e ritrovo (Club House), di utilizzare le competenze residue degli ospiti per impiegarli (retribuiti) all’interno dell’organizzazione e fornire una residenzialità “protetta” ma largamente autosufficiente ed emancipativa, per chi ne ha necessità. Non è infatti prevista la presenza di personale psichiatrico. Uno dei tanti problemi che hanno caratterizzato la difficile vita di questa realtà a basso costo e, quando funziona, dotata di potenzialità largamente favorenti l’autonomia, è stata l’ostilità dei servizi che non hanno sostenuto l’iniziativa (che si sostiene automantiene con rette private) in quanto non convenzionata e non accreditata presso la Regione Lombardia. Pertanto, il servizio non si sente garantito e tutelato in caso di problemi dell’ospite (che non possono mancare!). Inoltre, c’è l’errato convincimento che il basso costo del funzionamento comporti, da parte del servizio inviante, un basso impegno (in termini di risparmio economico) invece che un maggior investimento di risorse in termini di supporto psicologico e psichiatrico.

 

MARCO:

Buongiorno a tutti,

Ho cinquantotto anni. Sono nato e cresciuto a Milano. Ho un fratello più piccolo di diciotto mesi a cui è stata diagnosticata una grave malattia mentale. Mio fratello, Giordano così si chiama, è un paziente schizofrenico-psicotico.

Giordano, classe 1968, è un ex-atleta, nel 1984 vince il campionato europeo per squadre dilettanti. Il ciclismo è una parte importante per la vita di Giordano. Corre, corre, non si ferma mai. Cade e si rialza mille volte, non si contano gli infortuni e le cadute. Giordano ripeteva sempre che un ciclista deve abituarsi all’attrito carne -asfalto altrimenti ti viene la paura e non corri più.

Poi, un giorno è arrivata, all’improvviso la malattia. Nessuno della mia famiglia era preparato a questa nuova dimensione. Nessuno di noi sapeva nulla di malattia mentale, che cosa fosse e cosa comportasse per il paziente e per i suoi famigliari, amici, in generale per le sue relazioni.

Il ciclista, impensabile ritrovarselo fermo con la bicicletta appesa al muro immerso nei suoi deliri. Eppure, quella bicicletta è ancora oggi appesa al muro dove la collocò lui stesso alla fine della sua ultima gara. Oggi di quel corpo armonioso, atletico, scolpito dagli allenamenti, non c’è più nulla. Oggi c’è un uomo divorato dalla malattia che consuma le sue giornate immerso nel fumo delle sue sigarette.

Mi chiamo Marco Faita e questa è la mia storia, la storia del mio ciclista.

La malattia mentale è una sfida all’uomo, al suo modo di vivere. Mette in discussione ogni certezza, mischia le carte. La malattia mentale porte le persone oltre ogni limite. Catapulta le persone in una dimensione fatta, troppo spesso di dolore e sofferenza. La malattia mentale non è confinabile, vive tra le relazioni delle persone, impone la necessità di allargare lo sguardo di renderlo aperto, uno sguardo strabico. Bisogna saper vedere contemporaneamente le persone che soffrono ma anche il contesto in cui vivono e si esprimono. Purtroppo, in Italia, l’assistenza alle persone ed alle loro famiglie è molto critica, gli investimenti nel settore salute mentale latitano e la formazione dei professionisti del settore è apparsa sempre alquanto lacunosa in tantissime occasioni.

Esiste anche un problema di ideologizzazione che, per alcuni anni, ha tenuto bloccato ogni possibile margine di miglioramento e di sviluppo scientifico. Per finire troppo spesso argomenti come la recovery o il tema della domiciliazione degli esiti dei pazienti è parso più un modo per “abbandonare” il paziente nella propria casa piuttosto che un modo di offrire una libertà di autodeterminazione.

In Italia il problema è un po’ la genesi della salute mentale di comunità o, meglio, della psichiatria di comunità nel nostro Paese. I servizi di salute mentale sono nati quarant’anni fa più per un obiettivo di riacquisizione dei diritti civili e della libertà che non per il diritto ad una cura efficace. Questo tipo di imprinting è restato per molti anni ed è ancora presente.

Non voglio essere frainteso, i diritti civili ed i diritti alla libertà sono sacrosanti ma è stato misconosciuto il diritto a cure efficaci in questi quarant’anni. Perché si è negata l’esistenza della malattia mentale, questo è il problema.

Ed è stato interpretato male anche Franco Basaglia, attribuendo a lui una serie di affermazioni che sono di non riconoscimento di una origine anche neuro-biologica della malattia mentale tanto tanto che Basaglia non è insegnato nelle Università. Perché Basaglia non è insegnato nelle università e nei contesti accademici? Questo ci dovrebbe far riflettere! Perché Basaglia è considerato antiscientifico ma a torto perché, se leggiamo bene i suoi scritti (ricordo che era un neurologo), non ha mai negato una componente patologica organica delle manifestazioni dei pazienti psichiatrici gravi.

Purtroppo, noi, in Italia, abbiamo vissuto nell’ideologia che ha portato alla negazione o sottovalutazione degli aspetti patologici delle espressioni dei pazienti. Gli americani, che hanno mille difetti e mille limiti e che non hanno un sistema di salute mentale come quella italiana, sono però molto più avanti, perché hanno procedura lizzato tutto, hanno trasferito in procedure ed in linee guide tutti i trattamenti psicosociali e li hanno supportati con una serie di ricerche e di letteratura scientifica che danno la base per dire che noi oggi abbiamo trattamenti efficaci psicosociali, psicoterapici ed anche riabilitativi che possono essere misurabili con gli strumenti che ci sono oggi, dove gli operatori possono essere formati.

Certamente va cambiata la cultura attuale dei nostri servizi territoriali, il dovere del CSM non è solo quello di accogliere, accompagnare o fare interventi di tipo generico, ma il dovere di offrire alle persone che soffrono e che accedono ai servizi i migliori trattamenti che la letteratura scientifica ci dimostra come efficaci e questo è un dovere preciso del sistema sanitario che non può essere solo quello di liberarli dalle catene. Quello lo abbiamo già fatto! Adesso dobbiamo liberarli dalle catene della malattia: è questa la sfida! Se non facciamo questo cambiamento, in Italia, noi possiamo tranquillamente chiuderli i CSM, non servono più a nulla. Perché i direttori generali non ci danno le risorse se non li convinciamo che abbiamo dei trattamenti di qualità di cui possiamo misurare i risultati.

Il problema è che in psichiatria non ha più senso che vi siano le correnti di pensiero, perché il paradigma è bio-psico-sociale e questo mette tutti d’accordo perché sul BIO ci troviamo gli organicisti, psico ci sono tutti coloro che individuano gli aspetti emotivi, la mentalizzazione, il percorso di riconnessione emotiva, integrazione dell’identità e quindi la psicoterapia come importante, e per ultimo, nel sociale, troviamo tutti coloro che ritengono che la malattia mentale sia un costrutto sociale e che i pazienti hanno bisogno solo di inclusione sociale.

Il Buon Hengel nel 1777 aveva già capito tutto quando parlava di paradigma bio-psico-sociale e quando parlava di unire queste tre aspetti; quindi, oggi non ha proprio più senso che i Dipartimenti di Salute mentale si dividano in correnti chi è più sociale chi è più organicista ecc. Serve invece una integrazione di queste tre dimensioni a totale beneficio dei pazienti.

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