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La tenerezza e la giustizia - PARTE 2

2024-01-25 19:34

Famiglie in rete

Ci siamo anche noi, Salute Mentale, Carcere, doppia diagnosi,

La tenerezza e la giustizia - PARTE 2

Il carcere spesso diventa la "discarica" dei pazienti psichiatrici più complessi

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La tenerezza è un modo inaspettato di fare giustizia”: questa coraggiosa frase di Papa Francesco ha ispirato la giornata nazionale di studi organizzata dalla redazione di Ristretti Orizzonti in collaborazione con la Casa di Reclusione di Padova, il 19/5/2023.

Due socie di Famiglie in Rete hanno parlato di salute mentale e carcere: in questo articolo, estratto dagli atti della giornata, la testimonianza di Maria.

"Anche mio figlio si chiama Giacomo, come il figlio di Loretta. Ha 23 anni e attualmente è detenuto in un carcere milanese. Mio figlio ha una doppia diagnosi, come quello di Loretta, ma nel caso di mio figlio è prevalente la diagnosi psichica, mentre la dipendenza è una conseguenza, cioè mio figlio usa sostanze - soprattutto cannabis - come tentativo disfunzionale di autocurarsi quando sta male. 

Il disturbo di cui soffre mio figlio si chiama disturbo borderline di personalità e a volte viene chiamato anche disturbo di disregolazione emotiva, perché le persone che ne soffrono non hanno problemi a livello delle capacità mentali (quindi, se parlate con loro, sono persone che ragionano normalmente e non hanno episodi psicotici), però vivono ogni tipo di emozione in modo estremamente forte, intollerabile. Stiamo parlando di qualsiasi tipo di emozione: sicuramente le emozioni negative, come la rabbia e la frustrazione, ma anche la noia, persino la felicità certe volte è intollerabile. A volte viene fatto il paragone con chi ha la pelle ustionata: basta un piccolo soffio di vento per provocare un grande dolore, mentre noi non ce ne accorgiamo; lo stesso avviene con le emozioni per queste persone. Quindi sono sottoposte a sollecitazioni molto forti nella vita di tutti i giorni, che li portano anche a commettere reati. I reati di mio figlio sono tipici di questo disturbo: aggressioni e distruzioni. Nel momento in cui ha una crisi, lui distrugge qualsiasi cosa gli capiti davanti.  In questo modo, a 23 anni ha già raggranellato 20 procedimenti penali. Alcuni li ha già scontati: è stato un anno e due mesi in carcere minorile, un anno in custodia cautelare in comunità e adesso si trova di nuovo in carcere. 

Loretta mi ha definito la sua compagna di battaglia, e il libro di Loretta si chiama "Io combatto": noi mamme combattiamo veramente, perché i servizi di salute mentale molto spesso non sono in grado di curare i nostri figli. I nostri figli hanno delle patologie molto complesse e costose da trattare, e i servizi di salute mentale sono sopraffatti da un gran numero di pazienti più semplici. Il COVID ha peggiorato la situazione, ha portato tutta una serie di disagi anche meno gravi, ma che comunque richiedono attenzione, e che hanno intasato i servizi di salute mentale. Quindi, in qualche modo, i servizi hanno rinunciato a trattare i casi gravi come quelli dei nostri figli. 

Kento ha usato la parola "supplente" per dire che il carcere a volte supplisce alle inadeguatezze di altri tipi di servizio. Io voglio essere più forte di Kento. Io lo chiamo "discarica". Il carcere diventa la discarica dei pazienti psichiatrici di cui i servizi non si occupano. Voglio essere chiara: non è così dappertutto in Italia, a macchia di leopardo, esistono delle realtà veramente adeguate. Questo mi fa anche più rabbia, perché queste realtà non sono più ricche economicamente di altre, eppure riescono a far fronte anche ai casi complessi. Ma nella stragrande maggioranza d'Italia la situazione è simile a quella che vi stiamo raccontando io e Loretta. 

In Famiglie in Rete  ci sono almeno una cinquantina di famiglie, distribuite in tutta l'Italia, dal Cadore fino alla Sicilia, in condizioni molto molto simili alla nostra. 

Il posto dove dovrebbero essere curati questi ragazzi non è sicuramente il carcere. Io non ho nulla contro il carcere: gli operatori del carcere fanno davvero il possibile, ma non è il posto giusto per queste persone. Anzi, creano molti problemi anche in carcere. Immaginate un ragazzo che ha queste crisi, che noi stessi in famiglia subiamo: la mia casa è tutta distrutta, porte rotte a testate, vetri infranti. Se è difficile in una famiglia, dove se un parente non ce la fa più può almeno uscire di casa, immaginate cosa vivono i compagni di cella.  Il carcere è un supplizio per mio figlio e una tortura anche per i suoi compagni di detenzione.

Il luogo dove dovrebbero essere curati, oltre alle REMS, sarebbero le comunità terapeutiche, ma per la maggior parte non sono adeguate. Mio figlio ha vissuto un anno agli arresti domiciliari in comunità, in tre comunità diverse, in tre regioni diverse: Lombardia, Piemonte ed Emilia. Anche lì veniva scaricato: dopo una quindicina di giorni dal suo ingresso, la comunità faceva istanza al tribunale perché venisse trasferito. Perché le comunità sono enti privati, di solito cooperative, e vengono pagate la stessa cifra per i nostri figli oppure per un caso più semplice. Pensate a un ragazzo o una ragazza con l’anoressia: crea molti problemi, ma più semplici dei problemi di mio figlio, che distrugge le porte… Quindi, tendono a liberarsene o a sedarlo. In una di queste comunità, mio figlio ha vissuto 9 mesi completamente sedato. Immaginate questo ragazzo, che è stato un campione di basket, che non riusciva neanche più a tenere in mano un oggetto, gli cadeva dalle mani, tanto era sedato, e aveva la bava alla bocca. Quindi, se gli chiedete se vuole tornare in comunità, vi dice che preferisce rimanere in carcere. E devo dire che io sono dello stesso parere: per quanto brutto possa essere per una madre andare a trovare suo figlio in carcere, non è mai stato orribile quanto vederlo nelle condizioni in cui era quando era in quelle comunità. Tra l’altro il carcere, proprio perché è l'ultima discarica, non può più scaricare questi ragazzi da nessuna parte, è il posto dove io ho trovato un po' più di apertura verso un ragionamento sul futuro di questi ragazzi. Quando era minorenne, siamo riusciti, grazie anche all'intervento del Garante, a ottenere un percorso in semilibertà, dove Giacomo usciva al mattino, andava in ospedale a fare la terapia, e tornava in carcere al pomeriggio. La stessa cosa non era mai stata possibile con i servizi territoriali che avrebbero dovuto occuparsene. 

C'è anche un'altra struttura nei servizi di salute mentale che dovrebbe occuparsi di questi ragazzi, pazienti psichici autori di reato: la psichiatria forense. In Lombardia sono stati stanziati molti soldi per istituire le unità di psichiatria forense, che non sono mai stati utilizzati a quello scopo. Non si sa dove siano finiti. La nostra associazione sta cercando di capire anche questo. In Lombardia le psichiatrie forensi si contano su una mano e ne conosco una sola che funziona bene, le altre funzionano malissimo. 

Era seguito da una psichiatria forense un altro ragazzo, il terzo Giacomo che citiamo oggi. È morto in carcere a San Vittore un anno fa, il 1 giugno dell'anno scorso. Morto in carcere all'età di ventun'anni, in attesa di inserimento in REMS. Aveva un disturbo borderline di personalità, anche lui. In quel periodo aveva un gran mal di denti e non veniva curato, per avere un dentista in carcere a San Vittore, devi aspettare mesi. Immaginate una persona con disturbo borderline, per la quale basta una piccola emozione per scatenare una crisi, con un mal di denti continuo, giorno e notte. Non ce l'ha fatta più. Ha usato il fornelletto con cui i detenuti cucinano, ha inalato il butano del fornelletto ed è morto. Non sappiamo se si sia intenzionalmente suicidato o se stesse cercando di stordirsi per il dolore, ma sua mamma non vuole che venga usato il termine suicidio: dice che suo figlio non si è suicidato, è morto di abbandono."

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